Giacomo Pellizzari (fonte profilo Facebook)

Giacomo Pellizzari (fonte profilo Facebook)

E’ un grande piacere ospitare Giacomo Pellizzari autore di “Storia e geografia del Giro d’Italia” edito da UTET. Giacomo è stato direttore editoriale di Bike Channel, il canale di Sky dedicato al mondo a due ruote, riuscendo a trasformare la sua grande passione in un lavoro. Oggi è consulente di comunicazione ed è socio di Upcycle, il primo bike cafè restaurant d’Italia.

Ciao Giacomo, il tuo curriculum lo dice chiaramente, sei un grande amante del ciclismo, come è nata questa tua passione, immagino fin da piccolissimo?

In modo abbastanza semplice e lineare, direi: un giorno mia moglie mi porta da Decathlon e mi dice, guardando una bicicletta da corsa “Secondo me sarebbe uno di quegli sport che a te vengono bene”. Non sapeva a cosa andava incontro.

Aneddoti a parte, seguo il ciclismo, quello professionistico. fin da quando ero bambino. Durante il Giro la TV di casa era sempre accesa: ho visto Moser, Saronni, Hinault, Bugno, Chiappucci, Pantani, Contador, Nibali, Aru. La cosa più bella del Giro è il periodo in cui si svolge, credo: maggio. Il mese in cui l’Italia rifiorisce, siamo nel pieno della primavera. La natura esplode, i colori sono accesi come non mai, e non esiste periodo – e modo migliori – per scoprire l’Italia, il paese più bello del mondo. Basta anche solo accendere la tv ogni pomeriggio e sintonizzarsi sulla diretta: va in onda uno straordinario documentario geografico sul Bel Paese. Il più bello di sempre. Lo farei vedere nelle scuole.

Sei da sempre vicino al mondo delle due ruote, come si è modificato il ciclismo negli ultimi anni? Sia da un punto di vista tecnico che emozionale.

È diventato meno spettacolare forse. La lotta al doping ha di fatto prodotto dei risultati, anche a scapito dello spettacolo, ma questo credo sia un bene e comunque anche da questo punto di vista c’è ancora moltissimo, credo, da fare. Il livello dei ciclisti è diventato più “umano”. Meno VAM impossibili, meno prestazioni da lasciare sulla poltrona basiti. Ma anche, quindi, meno azioni emozionanti, meno campioni che scardinano d’improvviso la corsa. Più strategia, più attenzione, a volte, c’è da ammetterlo (Vedi il Tour de France del 2016), anche più noia.

 

La copertina di “Storia e geografia del Giro d’Italia”

Nel tuo libro Storia e geografia del Giro d’Italia percorri, in un ipotetico Giro d’Italia, vent’un storie legate alla corsa rosa, chi è stato o chi sono stati i ciclisti che più ami o hai amato?

Amato credo solo Marco Pantani. Mi ci identificavo: pesavo esattamente come lui ed ero alto esattamente come lui. La sua mi sembrava anche la mia rivincita sui compagni di scuola grandi e grossi. Vince quello piccolo, per una volta. Quello mingherlino. Gli altri stanno a guardare. Una bellezza. E poi il modo con cui vinceva. Scatti che non abbiamo mai più – ma io aggiungo nemmeno prima – visto. Aveva ragione Gianni Mura: Pantani era un fossile appartenente un’era lontana conservatosi fino a giorni nostri. Io credo il più grande scalatore di tutti i tempi. Però ormai Marco è mito, con tutti la retorica che ne consegue, a volte persino stucchevole. Dopo e prima di lui ci sono stati altri campioni che mi hanno colpito ed emozionato. Da bambino tifavo per Beppe Saronni (anche se ho molto amato anche Moser), anche se non era esattamente un corridore da “Giro”. Ma aveva uno scatto improvviso in volata che, anche in questo caso, non ho mai più visto a nessuno, almeno in Italia. Si pensi alla tremenda “fucilata di Goodwood”. Poi ho amato moltissimo Gianni Bugno, soprattutto per quel suo carattere, per quel suo modo di sminuirsi e di sfuggire sempre. Quasi fosse sempre altrove o volesse andarci al più presto. Ma pensate che corridore: ha vinto un Giro d’Italia indossando la maglia rosa dalla prima all’ultima tappa! Qualcosa di irripetibile. E quando vinse la Milano – Sanremo, con una fuga partita da lontano, tenendo la media oraria tutt’ora più alta di sempre nella storia della Classicissima, gli chiesero: Gianni, come diavolo hai fatto? “C’era vento a favore” ha risposto lui. Come non amarlo alla follia uno cosi? Oggi mi piace Vincenzo Nibali. È l’unico che ha ancora la capacità e la voglia di stupire, di “regalare qualcosa”. Quando pensi che sia finito, anzi proprio in quel momento, lui risorge. Ci ha regalato un Giro d’Italia 2016, da questo punto di vista, bellissimo e umanamente emozionante come pochi. Speriamo si ripeta.

Nel tuo libro scrivi: “Sembra paradossale, ma i veri protagonisti del Giro d’Italia non sono i corridori. Si scende in strada a vedere il Giro che passa, ma ciò che interessa davvero non sono i concorrenti, di cui magari ignoriamo anche il nome. Quello che affascina è piuttosto il fatto che lei, la corsa, pass proprio di li”. Credo che ognuno di noi che sia anche solo andato una volta a vedere una corsa ciclistica abbia quella sensazione di “esserci” di partecipare ad un rito di “comunione”, hai una tappa del giro a cui sei più legato, non per il risultato finale ma per il contesto in cui l’hai vissuta?

C’è sì una tappa che più mi ha emozionato, anche se non ero lì a vederla ma davanti alla tv. Avevo 21 anni. Si tratta della famosa Merano – Aprica del 5 giugno 1994 vinta da Pantani, la tappa che lo lanciò. Quello che mi colpì, al di là dell’impresa del Pirata, fu, guardandola poi negli anni, il modo con cui quel ciclista cambiò le sorti di quel luogo, il Mortirolo, e di quella salita. Prima di quel giorno non era che una mulattiera impervia, poi come per magia, grazie al suo passaggio e alla sua incredibile impresa, è diventata leggenda. È uno dei luoghi del mio libro.

Lo sport in generale si presta molto alla “poesia” il passato il ciclista era visto come un personaggio “romantico” un modello da seguire, gli anni novanta ci hanno lasciato uno sport con un’immagine rovinata, spesso i ciclisti sono stati additati come esempi negativi. Ora come credi che venga visto il ciclista nell’immaginario collettivo?

Oggi il ciclista nell’immaginario collettivo temo venga vista troppo spesso negativamente, come un “dopato” o comunque come un personaggio ambiguo. Spesso è stata colpa dei ciclisti stessi, innegabile ( si prenda Lance Armstrong su tutti), ma troppo spesso è anche diventato un luogo comune questo. Il ciclista fa sforzi e si sottopone ad allenamenti massacranti che in altri sport difficilmente si vedono. Credo meriti più rispetto.

E’ passato cosi poco che non possiamo parlare del grande Michele Scarponi. La sua scoparsa è stata un pugno nello stomaco per tutti, uno di quei cazzotti da knockout ma credo che Michele sarebbe il primo a dirci di sorridere anche di questa tragedia. Hai un ricordo dello Scarponi uomo che gradisci condividere con noi?

Non ho avuto la fortuna di conoscere Michele Scarponi di persona, ma ho tanti ricordi associati a lui. Uno però in particolare: l’abbraccio fraterno con Vincenzo Nibali dopo il Giro conquistato soltanto un anno fa. Michele fu fondamentale in quella vittoria, di una generosità e di abnegazione quasi commoventi. Tutti se ne accorsero, e in quella splendida vittoria dello Squalo dello stretto, c’è un posto fondamentale per lui. In quell’abbraccio tra i due compagni c’era tutta l’essenza del ciclismo: sofferenza, capacità di mandare giù le critiche, voglia di rivincita e infine la gioia per averla ottenuta. Davvero magnifico. Michele oggi credo che rimarrà nell’immaginario di tutti come un eroe positivo. Ecco il prototipo del ciclista che merita rispetto e riconoscenza anche da chi non conosce (e forse non ama) questo sport.

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